Democrazia e Salute Mentale di Comunità. Trieste, 21 – 23 giugno 2018.
«Volevo condividere con voi alcune riflessioni per i 40 anni della 180. L’incontro di Trieste è stato emozionante, intenso, costruttivo e altamente formativo. Erano presenti professionisti e delegazioni di molti paesi, rappresentanze del volontariato e delle associazioni di utenti e familiari. La nostra legge di riforma ha quasi mezzo secolo di vita ma rappresenta ancora un faro potente per il cambiamento dei servizi e della società non solo in Italia ma anche a livello internazionale. Il patrimonio più grande è l’averci consegnato l’apertura della prospettiva della salute mentale nella Comunità avviando processi di sperimentazione di pratiche, tecniche e modelli tutt’ora in corso, portando la psichiatria verso una progressiva umanizzazione. La 180 ha avviato la riflessione sulla questione psichiatrica ponendola di fronte a tutti (tecnici, politici, amministratori, forze dell’ordine, familiari, cittadini) come problema da affrontare in modo integrato senza equivoci e/o ambiguità. In passato le pratiche terapeutiche manicomiali ritenevano il paziente psichiatrico una persona incomprensibile, incurabile e pericolosa per se e gli altri tanto da dover essere allontanato e segregato. Questa legge ha dato dignità alla nostra professione a vantaggio delle persone sofferenti. Vi siete mai chiesti quale sarebbe stato il nostro futuro professionale (psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione, educatori, ecc.…) dentro le mura di un’istituzione chiusa? Potevamo essere liberi di pensare come aiutare le persone ad autodeterminarsi?
La legge Basaglia è una legge quadro, ha descritto le regole entro cui va fatto l’intervento e dove va fatto. Non ha indicato i metodi di trattamento lasciando agli operatori lo studio metodologico delle procedure e delle tecniche di cura. Questa libertà professionale, da taluni fortemente criticata, di per se è stata altamente qualificante poiché ha consentito di sviluppare creatività, sperimentazione, ingegno, lavoro basato sul fare, sulle prassi, sul dare risposte concrete alle situazioni ed alle persone per poi magari teorizzare successivamente su ciò che è stato fatto.
Sporcarsi le mani, metterci la faccia è spesso la sfida e la responsabilità a cui siamo chiamati in situazioni difficili, anche quando le nostre risorse e le nostre possibilità sono assai ridotte. Abbiamo imparato molto in questi anni poiché la legge di riforma, sulla quale anche l’onorevole Aldo Moro ha dato il suo contributo in alcuni passaggi, ha permesso di lavorare in un campo aperto dove l’imperativo per i servizi era quello di impegnarsi, studiare, sperimentare, inventare. Ognuno di noi ha avviato una propria formazione psicoterapeutica o riabilitativa approfondendo approcci e discipline diverse. Via via sono andate maturando nell’operatività clinica dei servizi negli anni ‘90 e 2000 le pratiche psicoriabilitative, le case famiglia, i centri diurni, gli approcci basati sulla recovery, il mutuo aiuto, la mindfulness, il dialogo aperto, la multifamiliare, l’intervento di rete, e ancora i programmi in borsa lavoro, i tirocini formativi, la cooperazione sociale, l’abitare supportato e tante altre tecniche e pratiche innovative che hanno valorizzato i nostri interventi e contribuito a reinserire persone nella società.
La 180 ha portato l’Italia ad avere la legislazione più avanzata al mondo in termini di approccio culturale al disagio mentale. Molti paesi l’hanno assunta come modello di riferimento per le loro legislazioni (Portogallo, Spagna, Brasile, Grecia, Croazia, Ungheria, ecc.…) e l’OMS ha posto l’Italia come esempio per la disciplina normativa in materia. Permangono, tuttavia, elementi di criticità e debolezza. Nella stragrande maggioranza dei paesi continuano, purtroppo, ad esistere gli ospedali psichiatrici dove vengono reclusi i pazienti più difficili. In Francia ed in Inghilterra, paesi tra i più avanzati al mondo nelle politiche sociali, permane un forte ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori ed una persistenza di pratiche segreganti. Le pratiche coercitive e di abbandono permangono anche in Italia (TSO, contenzioni, assenza di presa in carico, programmi terapeutici confusivi e fragili, il ricorso alla residenzialità psichiatrica ecc.…). In molte regioni italiane le strutture intermedie non sono mai decollate, i CSM e i Centri Diurni sono molto deboli e al manicomio si sono sostituite la logica della delega sine die alle cliniche private o alle Comunità terapeutiche con trattamenti di lunga durata (dieci anni o più).
Attualmente sono circa 30.000 i pazienti ricoverati nelle strutture residenziali comunitarie in Italia, rappresentando la nuova frontiera della psichiatria italiana. L’atteggiamento coercitivo e segregazionista persiste tutt’ora in una certa misura nella popolazione generale e purtroppo anche in alcuni ambienti psichiatrici. L’Università continua a sfornare professionisti molto preparati sull’utilizzo dei farmaci, pratica per carità importante, ma piuttosto insufficiente rispetto alla complessità delle risposte alla persona con disagio mentale.
Anche l’atteggiamento “oggettivante” della psichiatria persiste tenacemente ancora oggi: la tendenza a ritenere la persona malata come soggetto da studiare, catalogare, etichettare, osservare con distacco e con una pretesa neutralità scientifica. In realtà la pratica clinica territoriale ci ha insegnato che per essere dei professionisti “onesti” della salute mentale dobbiamo imparare ad ascoltare e stare con l’altro, comprenderlo, accompagnarlo nel suo processo di crescita, capire la sua alterità il suo essere e permettergli di sperimentare modalità esistenziali più soddisfacenti di vita. L’essere con, il costruire con, è l’approccio esistenziale ed umanistico più corretto che consente all’operatore di avere informazioni, accedere al mondo interno dell’altro e dare valore e significato al proprio agire terapeutico ed alla sofferenza della persona. Abbiamo imparato, inoltre, a non essere paternalistici evitando di infantilizzare i nostri utenti rimandando loro la responsabilità delle scelte di vita come momento di crescita e cambiamento verso modelli più funzionali.
La costruzione della salute mentale non è appannaggio solo dei tecnici della salute mentale, interessa la società nel suo complesso nelle sue varie forme organizzative ed associative. Il benessere si costruisce in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti sociali in genere basati sul rispetto reciproco, sulla partecipazione, sulla democrazia, sulla giustizia sociale, sulla tolleranza e sulla solidarietà. È quindi precipuo compito dell’operatore coinvolgere sin dall’inizio tutti gli attori in campo per la risoluzione dei problemi.
La 180 è una legge potente, ma anche fragile al suo interno. Vi sono stati negli anni passati numerosi tentativi di controriforma, tutti fortunatamente respinti. Credo che abbiamo il dovere di comprendere e apprezzare pienamente la portata della rivoluzione e del movimento culturale che negli anni 60 e 70 ci ha regalato questo gioiello. Sta a noi saperla difendere nel futuro, implementarla e arricchirla declinando le nostre pratiche verso modelli di salute mentale di Comunità laddove il benessere del singolo si riflette sull’intero corpo sociale: un cittadino non curato o abbandonato alla sua sofferenza e fragilità è una sconfitta per tutti e una perdita di valori e diritti per ognuno di noi.
Buon lavoro.
Affettuosamente,
Gianni Carusi»